Un paio di giorni fa ho visto in TV una trasmissione nella quale erano ospiti due free hugger italiani.
Alzi la mano chi non ne ha mai sentito parlare!
I free hugger escono per strada, esponendo la scritta abbraccio libero ed invitando garbatamente i passanti a scambiare un abbraccio con loro.
L’idea nasce a Sidney, probabilmente nel 2005, da un misterioso giovane australiano noto con lo pseudonimo di Juan Mann. Da quel momento, grazie al passaparola e ad un video che ha fatto il giro del mondo (in forza di un’idea socialmente dirompente, e di una colonna sonora trascinante), Free Hugs è diventato un movimento a livello mondiale, il cui giorno ufficiale è il primo sabato dopo il 30 giugno.
I volontari dell’abbraccio libero (o dell’abbraccio gratuito), sono arrivati in tutto il mondo, e così i video che li riprendono in azione: alcuni di essi hanno compiuto viaggi in località remote, portando i loro sorrisi ed i loro cartelli anche in luoghi – come la Palestina o Israele – dal forte significato simbolico.
È interessante guardare qualcuno di quei video; intrigante osservare le varie declinazioni di atteggiamento dei passanti: di chi fa finta di niente, di chi guarda ma non si ferma, di chi osserva incuriosito dal lontano, di chi svicola, e di chi ha mille modi per scegliere, alla fine, di lasciarsi andare.
Già.
È stato scritto molto sui motivi per i quali le persone si mostrano riluttanti a questo gesto così semplice, cosi naturale. Si è parlato – spesso propriamente – di chiusura, della paura dell’altro, delle difese psichiche, di egoismo. In Rete troverete facilmente anche articoli scientifici sui benefici psicofisici dell’abbracciarsi; tra questi vengono elencati la riduzione dell’ansia, della pressione arteriosa, dello stress, della diffidenza, ecc. Si è parlato espressamente di effetto terapeutico della pratica.
Dio mio, l’abbraccio è diventato una pratica.
C’è tanta unanimità nel raccontare la positività di un abbraccio che si è finito per oggettivare il gesto, a discapito del suo significato; un’operazione che, in psicologia, viene definita falsificazione. Come dire che, se è vero che chi si ama fa l’amore, fare spesso l’amore con molte persone diverse trasmette agli altri ed al mondo buoni sentimenti reciproci perché invoca il sentimento dell’amore.
È stato anche detto che rendersi disponibili all’abbraccio di un estraneo educa all’apertura e alla fiducia.
A questo proposito c’è da osservare che ogni atteggiamento socialmente condiviso (ivi incluso l’abbracciare una persona), seppur sempre declinato da più stratificazioni di senso (a livello del gruppo sociale, del gruppo degli amici, della famiglia, delle proprie inclinazioni e convinzioni individuali), viene codificato e trasmesso – e sempre espresso − anche per via inconscia. L’aspetto educativo di una tale esperienza è ben poca cosa rispetto all’inerzia culturale che ha forgiato i nostri comportamenti tendenziali. In altre parole, non è una sovrastruttura di senso che può cambiare il valore inconscio condiviso di un gesto, a meno che un’intera comunità non la ri-viva e faccia propria per un tempo abbastanza lungo da sedimentarne cultura condivisa. Non è ballando nudi attorno ad un fuoco che troveremo noi stessi o scopriremo il significato della vita, se quella pratica non è già profondamente legata, nel nostro inconscio culturale, ad una esperienza trascendente e rivelatoria.
Non credo ci sia nulla di male nell’abbracciare uno sconosciuto. Ma quale tipo di piacere ne cerchiamo, e vi troviamo? Un contatto umano? La conferma che − nel mondo − qualcuno ci vuole bene? O vogliamo forse, proiettivamente, che il mondo sappia che c’è ancora amore da dare?
Certo che no: l’altro non ci conosce, e noi non lo conosciamo; magari è la stessa persona che due ore prima ci ha insultati sul forum perché non siamo vegetariani (o perché lo siamo)… o viceversa. E se sapessimo che l’altro è un pedofilo, o un gangster… avremmo lo stesso piacere nell’abbracciarlo?
Stiamo abbracciando qualcuno che non c’è.
Dopo quell’abbraccio torniamo a casa più aperti verso il prossimo? Ricordiamo che in molte lingue, italiano incluso, prossimo è il superlativo di vicino: il nostro prossimo sono le persone che ci sono più vicine. Siamo dunque più desiderosi di un rapporto più aperto e sereno con gli altri della nostra quotidianità, dopo quell’abbraccio? Il vicino di casa, lo zio rompiballe, il capufficio, i nostri figli o genitori? No. E se sì, non è che l’onda di un’emozione che non si sedimenta, non si fa consapevolezza, non ci ha fatto più maturi.
Abbracciare un estraneo che non vedremo mai più, e verso il quale non proviamo nulla se non un generico senso di amore − che in quel momento si proietta sull’intera volta terrestre, si fa universale e quindi non è più amore – è molto più facile che condividere senso, significati e quotidianità con una persona con la quale i rapporti sono da anni logorati, tesi. L’estraneo ci permette di fingere che non abbiamo problemi col mondo, incarna l’idealità di un rapporto che forse vorremmo, ma che di certo non abbiamo.
Stiamo abbracciando qualcuno perché non c’è.
È interessante riflettere sul fatto che, forse, a chi è davvero in pace col mondo non viene voglia di abbracciare un estraneo; a meno che non percepisca, in quell’incontro volante, dei valori in più rispetto a quel gesto vissuto come amore staminale.
Accade a molti di trovare, in queste occasioni, il coraggio di abbracciare una persona. In quella scena del teatro del vivere, un cartello e due personaggi bastano a farci sentire legittimati ad un gesto che invece dovrebbe restare conseguenza di un movimento-tra, e non diventare metafora di una liberazione, o reclamo di rapporti che qualcosa – la vita? – ci ha sino ad allora negato.
Il libero abbraccio è uno scambio di piacere tra estranei: prendiamolo per quello che è.
Image: Free Hugs– Mr. Juan Mann in azione. Courtesy shamal.ilcannocchiale.it