Come accennavo nello scorso post, ogni regime dietetico stretto richiede delle eccezioni sistematiche; anzi, più il regime è stretto, più le eccezioni diventano importanti.
Io chiamo eccezioni tutti quei cibi, bevande, piatti e preparazioni che in fase di programmazione del regime dietetico sono sconsigliati, e che andrebbero quindi esclusi. È necessario però fare dei distinguo.
Ci sono eccezioni ed eccezioni, e certamente in caso di patologie gravi il paziente dovrebbe stare alla larga dagli alimenti che mettono a rischio la sua vita o possono compromettere organi e funzioni. Lo stesso vale in caso di allergie gravi, celiachia primaria (molto diversa da una semplice intolleranza al glutine) o sensibilità specifiche e gravi verso certi nutrienti. Esistono persone che morirebbero se mangiassero del peperoncino, ad esempio.
Dunque il concetto di eccezione si applica proficuamente a quei casi nei quali un certo alimento è ben tollerato, ma sconsigliato.
Detto questo, l’eccezione rappresenta spesso la chiave che fa funzionare un regime dietetico ristretto: perché mantiene l’organismo reattivo, mantiene alta la nostra intelligenza metabolica, e ci pone il problema della scelta e dell’autodeterminazione (molto importante in molte terapie) dandoci più consapevolezza.
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Consapevolezza
Parte importante di questa consapevolezza risiede nel realizzare che il cibo non è un demone, e che mangiarlo non è di per sé – tranne i casi che abbiamo detto – sufficiente a scatenare patologie o reazioni anomale. Ciò che solitamente crea problemi è l’abuso, cioè l’uso improprio di certi cibi.
Mi capita di assistere pazienti (adulti) che dichiarano di mangiare un certo cibo “solo un po’, ogni tanto”, per scoprire che in realtà si recano in cucina più volte al giorno, rubando di nascosto bocconi del cibo proibito come se dovessero nasconderlo a chissà quale padre severo. Naturalmente, lo nascondono soprattutto a se stessi. L’eccezione – specie una volta che la terapia nutrizionale comincia a funzionare – ci insegna che il problema non sta in quel boccone di cibo, ma in come il nostro organismo riesce a gestirlo; il problema cambia quindi beneficamente forma e sostanza, trasformandosi da istanza etico-morale a problema tecnico-metabolico. L’eccezione ci responsabilizza, facendoci sedere – come si dice – nella stanza dei bottoni. Spesso quel misterioso padre severo torna là da dove era venuto.
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La strategia delle eccezioni
Come si usano le eccezioni? Solo il terapeuta, con una visita specifica e personale, può dare dei parametri di riferimento. In linea generale direi comunque che un pasto assolutamente libero ogni sette giorni (in certi casi ogni dieci) può essere un buon punto di riferimento. Un pasto in cui si mangia qualsiasi cosa si desideri, senza limiti di sorta.
Sette-dieci giorni sono generalmente più che sufficienti perché l’organismo abbia la possibilità di gestire gli effetti metabolici di un alimento o di una preparazione che per quel nostro momento metabolico risultano scomodi.
Esistono naturalmente delle eccezioni, ed in certi casi può essere consigliabile evitare del tutto certi cibi fino a che la terapia nutrizionale non abbia raggiunto i suoi scopi.
Se la strategia è ben concepita e sostenuta, la difficoltà costituita da quel cibo viene ben presto superata, e si può tornare a mangiarne – in modo ragionevole – senza che questo comprometta la nostra salute o i nostri obbiettivi.
Un regime dimagrante non fa… eccezione! Intanto, mangiare un piatto di pasta, dolci o qualsiasi piatto molto energetico due o tre volte al mese non può in alcun modo compromettere una strategia nutrizionale ben concepita. Anzi, risulta fondamentale per evitare che l’organismo si ponga automaticamente in regime di risparmio energetico, vanificando gli sforzi e le nostre attenzioni. Lo vediamo nel prossimo post.
Buone eccezioni a tutti!
Image courtesy salute.it.msn.com